venerdì 24 febbraio 2012

Racconto di Guerra: "Pax romana" (Warhammer Ancient Battles)


Ieri sera, nella nostra sede, abbiamo disputato una partita a Warhammer Ancient Battles tra Romani (guidati dal sottoscritto) e Unni (condotti da Rudy Sbarato). Abbiamo preparato una versione romanzata della battaglia, in modo da farvi ripercorrere i momenti salienti dello scontro. Buona lettura!

Dall'alto della collina, Quinto Publio Caio osservava l'orda unna dispiegare le sue forze. Mai aveva visto così tanti cavalieri su di un campo di battaglia: migliaia di arcieri a cavallo si preparavano ad avanzare, pronti a travolgere qualsiasi cosa osasse pararsi loro di fronte.
Il generale romano vedeva la paura e la fredda determinazione mischiarsi negli occhi dei suoi legionari, consapevoli di essere l'ultimo baluardo pronto ad ergersi tra i barbari e la civiltà. Se non fossero riusciti a fermare gli unni lì, in quella pianura, tutto ciò che sarebbe rimasto delle fiorenti città alle loro spalle sarebbe stato solo un ammasso di macerie. Già molte volte quei selvaggi avevano dato prova della loro crudeltà, saccheggiando le provincie di confine e sterminando la popolazione inerme.
L'orda, simile ad un mare tumultuoso che minacciava di sommergere ogni cosa, iniziò ad avanzare. Quinto alzò un braccio, ordinando alle truppe di attendere il suo segnale: gli arcieri incoccarono le frecce e i serventi si affaccendarono attorno alle Balliste e alle Tormenta, preparandole ad accogliere il nemico con una pioggia di morte.
Stava per urlare di scagliare i proiettili, quando accadde qualcosa che lo stratega non aveva previsto: l'orda si aprì e una masnada cenciosa venne spinta in avanti. Quinto non poteva credere a ciò che stava accadendo: il condottiero unno stava facendo avanzare i vecchi, le donne e gli infermi della tribù. Quei mostri stavano utilizzando i deboli e gli indifesi come scudi umani, per permettere alla cavalleria di avanzare indisturbata.Ancora una volta, gli unni dimostravano di non conoscere la pietà.
Per un istante, l'ufficiale rimase indeciso sul da farsi: uccidere vecchi, donne e bambini non era un'azione degna di un guerriero. Ma non aveva scelta, ed il senso del dovere ebbe la meglio sulla compassione. Abbassò il braccio di scatto e il suo grido si propagò come un'incendio tra le linee romane: «Tirate!».
Centinaia di frecce si sollevarono in cielo e ricaddero sibilando verso l'armata nemica, trafiggendo le carni, mentre i dardi delle macchine da guerra falciavano i ranghi e schiantavano le ossa. Gli scudi umani vacillarono; la maggor parte di loro morì, mentre i nervi degli altri non ressero e si diedero ad una fuga disorganizzata.
La mattanza era però servita allo scopo: le legioni si trovavano ormai entro la gittata degli archi nemici. I cavalleggeri unni si lanciarono in avanti, scagliando le loro frecce nere con destrezza e arretrando poi a distanza di sicurezza una volta che il loro attacco era andato a buon fine. La fanteria romana si lanciò in avanti, una, due, tre volte, ma ogni tentativo fu vano. Gli unni continuavano a colpire e a ritirarsi vigliaccamente e i legionari, nonostante la buona protezione offerta dai loro grand scudi, cominciavano ad accusare le prime perdite.
Quinto iniziò a sentire il dubbio della sconfitta cominciare ad insinuarsi nel suo cuore: doveva cambiare strategia, o tutto il suo esercito sarebbe stato fatto inesorabilmente a pezzi. Gli unni non prestavano cura a cose come l'onore e la lealtà, anzi probabilmente occupavano l'ultimo posto nella loro scala dei valori. Non si sarebbero mai fatti ingaggiare in corpo a corpo, ma avrebbero continuato a sfiancare le sue truppe con rapide incursioni sui lati, fino a costringerle alla rotta.
Decise di giocarsi il tutto per tutto: dai fianchi avanzarono la cavalleria romana e gli ausiliari leggeri, abili schermagliatori in grado di adattarsi maggormente a quel tipo di combattimento. La manovra ottenne i frutti sperati: temendo di venire aggirati, gli unni caricarono tentando di sfondare l'accerchiamento. La cavalleria romana venne spazzata via, ma il loro sacrificio permise agli ausiliari di ingaggiare i barbari. I legionari si lanciarono così nuovamente all'attacco e questa volta la loro carica andò a buon fine: i giavellotti e i pilum sibilarono nell'aria, sbalzando gli unni di sella. Gli altri vennero finiti a colpi di gladio. In breve tempo, il fianco sinistro del nemico si sgretolò come le mura di Gerico.
La battaglia non era però ancora finita: il condottiero unno guidò una sortita della cavalleria nobile nelle retrovie romane, falciando le unità di arcieri e andando a minacciare le macchine da guerra. Fu qui che i soldati romani diedero maggiore prova del loro valore: gli equipaggi delle baliste si opposero fieramente ai feroci barbari, tenendo salda la posizione e permettendo la controcarica della Guardia Pretoriana guidata da Quinto in persona. Gli unni, decimati, iniziarono lentamente a ritirarsi.
Prima di sera la carneficina era conclusa. Quinto Publio Caio, l'armatura ammaccata in più punti, si aggirava tra i mucchi di cadaveri, pensieroso. Gli unni non erano stati definitivamente sconfitti, ma la tenacia delle legioni li aveva obbligati a desistere dall'invadere i territori romani, costringendoli a tornare da dove erano venuti. Alzò la spada insanguinata verso il cielo e la sua voce, insieme a quella dei soldati sopravvissuti, rieccheggiò per tutto il campo di battaglia: «Roma vittoriosa! Roma vittoriosa!».
Ancora una volta, le legioni avevano fatto il loro dovere. Almeno per il momento, i confini dell'impero erano al sicuro.

Se anche tu vuoi provare l'ebrezza di condurre sui campi di battaglia un'armata dell'antichità, vieni a trovarci nella nostra sede!
 
(a cura di Andrea Gobbato)


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